Il dibattito Sono i giuristi a orientare oggi il dibattito pubblico sullo smart working. È normale sia così. Il confronto politico e sindacale è tutto polarizzato sulla necessità o meno di una nuova regolamentazione della materia. La contrapposizione è netta. Da un lato quanti temono una legge perché foriera di vincoli e rigidità che potrebbero frenare il radicamento di una modalità di lavoro accolta con una certa freddezza da sindacati e imprese prima del boom causato dalla emergenza sanitaria. Dall' altro lato coloro che, forti di talune criticità emerse durante la fase di lockdown, reclamano tutele non contemplate dalla legislazione vigente o, comunque, non ancora pienamente effettive. È il caso del diritto alla disconnessione disciplinato in modo debole, con un generico rinvio al solo accordo individuale, dalla legge del 2017. Impostato in questi termini il dibattito mostra tuttavia gravi limiti di comprensione delle sfide radicali che lo smart working pone al nostro modo di concepire il lavoro e l' organizzazione di una intera società prima ancora che di ogni singola impresa o pubblica amministrazione. È l' ennesimo caso - più volte denunciato dal Sole 24 Ore - di cieca rincorsa alle regole in assenza cioè di una solida analisi sociale e di una visione della complessità delle trasformazioni del lavoro dotata di spessore culturale. Come se il lavoro fosse un mero fattore della produzione: un campo arido da arare unicamente a colpi di leggi o decreti. Eppure le moderne forme di lavoro da remoto, e la rivoluzione digitale che le favorisce e ne accompagna lo sviluppo, non si limitano a stravolgere mestieri e professionalità. Ad essere messe in discussione sono categorie concettuali (il posto di lavoro) e aggregazioni sociali (non solo le aziende ma anche le aree urbane) che si collocano ben oltre la classica concezione dei rapporti di lavoro ereditata dal Novecento industriale. Non sarà la fine della fabbrica e dei luoghi di lavoro; almeno non lo sarà per alcuni mestieri, settori e comparti produttivi. Ma certamente la diffusione dello smart working è un forte segnale della disgregazione della grande invenzione del capitalismo moderno, quella del "mercato del tempo di lavoro". Un mercato sostenuto da una precisa idea economicista di cosa sia «lavoro» e da relativi ruoli sociali fuori mercato, secondo una configurazione di genere ancora dura a tramontare nel nostro Paese, come il lavoro di cura e il redivivo lavoro casalingo che pongono poi quei problemi di conciliazione che lo smart working si propone (a parole) di risolvere. Troppo facile allora giocare sugli equivoci terminologici e pretendere di cancellare con una legge (quella sul lavoro agile del 2017) quegli ineludibili nodi culturali e sociali, prima ancora che giuridici e sindacali (pensiamo alle problematiche di salute e sicurezza), che sono ancora tutti sul tavolo e che in passato hanno drasticamente contenuto la diffusione del telelavoro. Espressione questa non a caso ancora utilizzata dalla istituzioni internazionali e dalla legislazione di tutti i principali ordinamenti nazionali che non conoscono l' italianissimo e furbesco agile work dove la parola «agile» non si può certo rendere con l' inglese smart. E questo perché il lavoro è «intelligente» per come viene fatto, per la sua produttività e qualità e per il grado di coinvolgimento del lavoratore, e non certo per il luogo fisico dove viene resa la prestazione. La prospettiva giuridica non è dunque di per sé sufficiente per comprendere problematiche e sfide che vanno oltre la ripartizione di diritti, obblighi e responsabilità tra le parti. Salvo non pensare (come propone la parte più conservativa del sindacato) di trasporre meccanicamente, nel lavoro svolto da casa o per obiettivi, logiche e regole che hanno retto il lavoro negli uffici e nelle fabbriche del Novecento. Come la buona letteratura sociologica - soprattutto francese - ha da tempo segnalato il problema dello smart working implica altre dimensioni accanto a quella lavoristica. E sono dimensioni importanti perché sono quelle che poi consentono di trovare soluzioni durature e sostenibili ai problemi sollevati dalle ricadute contrattuali che sono solo la punta di un iceberg ancora tutto da esplorare. Mi riferisco, da un lato, alla emersione di una idea del lavoro non solo come scambio economico (l' ora lavoro) ma come progetto di vita ed espressione della propria soggettività che è poi la vera chiave di volta per aggredire, fuori da vecchie logiche manageriali di comando e controllo, il nodo della produttività e della dignità del lavoro. E mi riferisco, dall' altro lato, a un preciso progetto politico di società entro cui collocare i processi economici e le relative scelte organizzative e manageriali. Perché inquadrare buona parte della vita lavorativa delle persone fuori da fabbriche e uffici significa ripensare non solo gli spazi aziendali ma anche i centri delle città e le loro periferie, i trasporti, la scuola e i luoghi di formazione dei nostri giovani, la stessa concezione delle nostre case e dei luoghi di aggregazione sociale. Pensiamo, per fare solo un esempio, a cosa ha insegnato la dura lezione dello smart working imposto durante il lockdown per la popolazione lavorativa di genere femminile, per i single, per i giovani e per i lavoratori più anziani. Solo una volta chiarito il modello di società desiderato sarà possibile affrontare il nodo dei sistemi di protezione sociale e quello di una moderna legislazione. Non tanto quella del lavoro agile in sé, quanto l' intera normativa dei contratti di lavoro in generale, superando una volta per tutte la persistente contrapposizione tra autonomi e subordinati che è espressione di quell' ordine economico e sociale del Novecento che ancora blocca la rivoluzione del lavoro promessa dai fautori dello smart working. 

dal Sole 24 Ore di Michele Tiraboschi

16 Settembre 2020