RISORSE PER IL RINNOVO CCNL 2016/2018 DEI DIRIGENTI DEL SSN: UNA VICENDA INQUIETANTE

Rinnovi contrattuali dei dirigenti Ssn, i motivi dello stallo e le possibili soluzioni

di Stefano Simonetti

S 24

L’Atto di indirizzo del Comitato di settore per la dirigenza sanitaria è sostanzialmente pronto da più di due anni ma deve essere completato nella parte più importante, cioè il quadro delle risorse finanziarie disponibili. In particolare, nel mese scorso è stata formulata una integrazione che è stata oggetto di una nota di commento da parte della Ragioneria Generale dello Stato (prot. n. 40363 del 19 marzo 2019) laddove si rileva che il Comitato di settore nella tabella allegata all'atto di indirizzo «quantifica correttamente le risorse occorrenti a regime per il rinnovo del contratto in parola in 458,10 milioni di euro, ma ne propone per il 2018 il più ridotto importo di 261,64 milioni di euro». In altre parole, mentre per tutto il pubblico impiego i rinnovi dei contratti hanno comportato un incremento definitivo del 3,48% già a partire dal 2018, per la dirigenza della sanità nel 2018 l'aumento sarebbe ben inferiore e limitato a circa il 2%. La Rgs segnala le incongruenze di questa previsione che «non è in linea con il quadro regolativo vigente». L’eufemismo utilizzato dall’organo ministeriale tradotto in italiano significa che l’integrazione dell’Atto di indirizzo è illegittima perché viola il combinato disposto dell'articolo 48, comma 2, del d.lgs. 165/2001 e dall’art. 1, comma 679 della legge 207/2017 dal quale risulta il riconoscimento, senza differenziazione tra comparti, di benefici contrattuali per il triennio 2016-2018 del 3,48 % a decorrere dal 2018. La Ragioneria non sottovaluta, inoltre, che tale operazione implica un elevato rischio di contenzioso.

Identica è la situazione in cui versa l’altra componente della dirigenza del Servizio sanitario, quella su cui infierisce il legislatore trattando i 5.000 dirigenti PTA come migranti che sono provvisoriamente nel centro di accoglienza delle funzioni locali ma dovranno tornare “a casa” con il rinnovo 2019-2021. Nell’Atto di indirizzo per l’area delle funzioni locali si legge, infatti, che «le risorse per l’anno 2018 in analogia alla tabella dell’atto di indirizzo dell’Area dirigenziale sanità, sono pari a 2,85 mln per il ruolo professionale, 1,98 mln per il ruolo tecnico e 5,81 mln per il ruolo amministrativo», cioè rispettivamente l’1,99, 1,99 e 1,98 per centro invece del 3,48. 
La questione del 2% al posto del 3,48% è dunque tutta di matrice regionale e addirittura la RGS afferma che la riduzione è illegittima e portatrice di contenzioso. C’è da domandarsi perché il Comitato di settore si sia irrigidito su di una posizione che è criticata dallo stesso Mef. Al di là di una strategia generale di contenimento della spesa, la scelta deriva probabilmente dal fatto che molte Regioni non hanno fatto gli accantonamenti in bilancio e quindi non sanno come venirne fuori. Si poteva pensare che derivasse dalla questione dell’indennità di esclusività dentro o fuori dal monte salari ma il fatto che la decurtazione viene estesa anche alla dirigenza Pta fa ritenere che non sia questa la ragione. Altro motivo di natura tattica è quello di minimizzare più possibile l’impatto del rinnovo ai fini del calcolo del monte salari al 31.12.2018 in prospettiva dell’ulteriore futuro rinnovo per il triennio 2019-2021.
A proposito dell’indennità di esclusività, vale la pena di fare alcune osservazioni riguardo a tale problematica – unitamente a quella della Ria – perché si rilevano molti disallineamenti tra le norme vigenti e i comportamenti dei soggetti istituzionali. 
L’indennità di esclusività nasce nel Ccnl del 2000 come «elemento distinto della retribuzione» e per tale motivo non era ricompresa nel monte salari. L’impatto finanziario della indennità è notevole visto che dal Conto annuale si ricava un importo complessivo di circa 1,3 mld, ragione per cui l’inclusione o meno nel monte salari assume un rilievo fondamentale per la trattativa. Il legislatore ordinario con il comma 545 della legge di Bilancio per il 2019 ha affrontato la questione prevedendo che dalla tornata contrattuale 2019-2021 l’indennità «concorre alla determinazione del monte salari utile ai fini della determinazione degli oneri derivanti dalla contrattazione collettiva». La immediata conseguenza logica della norma è che fino a tutto il 2018 l’indennità non rientra nel monte salari. La deduzione sembra ineccepibile; ma allora perché nella nota della Rgs citata sopra si legge che sul tavolo contrattuale si dovrà procedere «alla verifica sull’indennità di esclusività per il dirigenti dell’Area della Sanità ed, in particolare, alla sua inclusione nel monte salari complessivo»? Vuol dire che la questione è ancora aperta “anche” per il triennio 2016-2018 ? Allora cosa ha voluto dire il comma 545 ? La RGS si affretta però a segnalare che una eventuale inclusione altererebbe il quadro finanziario di riferimento. Ma non basta, perché forse non tutti ricordano che l’art. 12 del Ccnl del 6.5.2010 aveva ribaltato la norma del 2000 e l’emolumento è divenuto ufficialmente parte del monte salari. L’operazione fu particolarmente subdola perché non era affermata esplicitamente ma veniva disapplicato l’art. 5, comma 2, secondo capoverso del Ccnl 8/6/2000, secondo biennio economico. È assai plausibile che molti non si siano accorti allora e ricordati oggi di questo mutamento. Però è di tutta evidenza che la vicenda si complica ancora di più perché la clausola del 2010 è pienamente in vigore e lecita (la Corte dei Conti in sede di referto sulla compatibilità non disse nulla) e ha inoltre generato nei diretti interessati un legittimo affidamento nei confronti dell’entità complessiva del monte salari. 

Anche sulla retribuzione individuale di anzianità (Ria) le contraddizioni sono notevoli. Sussiste una diffusa convinzione che le Ria dei cessati dal servizio siano ormai perse. Lo testimonia il fatto che si fanno riunioni tecniche (l’ultima nel mese di marzo con l’assenza del Mef) per tentarne il recupero ma, soprattutto, perché il comma 435 della legge 205/2017 stanziava delle somme per «attenuare gli effetti finanziari correlati alla disposizione di cui all'articolo 23, comma 2, del decreto legislativo 25 maggio 2017, n. 75, con riferimento alla retribuzione individuale di anzianità». La Ria, dunque, era sostanzialmente persa tanto è vero che, in sede di adozione del decreto 75 citato nella versione portata in Consiglio dei Ministri il 19 maggio 2017, si prevedeva una sorta di salvaguardia ma nel testo andato in Gazzetta Ufficiale la norma è sparita. Il 21 maggio 2018 viene sottoscritto il Ccnl del Comparto e agli artt. 80 e 81 si parla espressamente del recupero e dell’utilizzazione delle Ria dei dipendenti cessati. Si potrebbe dunque pensare che la Ria non sia affatto persa se per il comparto le clausole contrattuali la disciplinano senza alcuna osservazione da parte della Corte dei Conti. Viene da pensare che per il comparto nessuno si è preoccupato più di tanto, visto l’esiguo valore delle Ria, mentre per la dirigenza sanitaria la longa manus del Mef tenterà di tutto per impedirne la valorizzazione. Infatti, nel Conto annuale 2015 il valore complessivo di tale voce risulta di ben € 1.452.410.823 (quasi un miliardo e mezzo), pari al 5,5 % dell’intero monte salari. Per ciò che concerne il rapporto della Ria con il limite ex art. 23 è fondamentale capire cosa intendesse il legislatore con le parole “incrementi” utilizzate nella parziale sterilizzazione intervenuta con l’art. 11 della legge 12/2019.

Come è possibile venire fuori da questa impasse ? È evidente che il nodo non è politico perché il Governo – a parte alcune dichiarazioni di solidarietà comunque facili da rilasciare quando non se ne pagano le conseguenze – se ne è lavato del tutto le mani: è come se dicesse che la legge è chiara nel prevedere che gli oneri sono direttamente a carico dei bilanci aziendali, quindi provvedano le regioni. Queste ultime hanno evidenti problemi di cassa e preferiscono andare incontro al contenzioso piuttosto che risolvere il problema. A proposito delle risorse necessarie per rinnovare i contratti, è singolare ricordare che alla fine del 2017 l’allora Presidente del Comitato di Settore aveva dichiarato che per chiudere le trattative servivano 1.300 milioni di euro e che non potevano certamente ricavarsi dallo stanziamento ordinario. Per il Ccnl del comparto del 21 maggio 2018 sono stati quantificati 776 mln – che, in ogni caso, non corrispondono esattamente al 3,48% - che se si aggiungono ai 476 mln ipotizzati (ma decurtati) per le aree dirigenziali portano gli oneri finanziari a 1.243 mln, in ogni caso non lontani da quelli inizialmente ipotizzati. L’aspetto più bizzarro - una vera nemesi – è che il Presidente del Comitato di Settore era all’epoca Massimo Garavaglia, assessore al bilancio della Regione Lombardia, che oggi è sottosegretario all’Economia e che, in linea del tutto teorica, dovrebbe trovare le risorse per i rinnovi. 

Tornando alle possibili azioni che possono sbloccare la odierna situazione kafkiana, si pone innanzitutto la questione di un possibile ricorso da parte dei sindacati contro l’atto di indirizzo; ma è una questione completamente nuova e non c’è alcun precedente. Di conseguenza è possibile tutto e il contrario di tutto. La stessa giurisdizione è complicata da capire perché l’Atto di indirizzo dovrebbe essere considerato in ogni caso un atto amministrativo e quindi di competenza del Tar (ma quale?). Peraltro è anche l’atto presupposto di una procedura negoziale privatistica quindi anche il giudice del lavoro potrebbe essere adito per ottenere una obbligazione di facere ai sensi dell’art. 1219 del cc, anche con provvedimento ex art. 700. Riguardo all’interesse ad agire, credo che dovunque venga leso un diritto soggettivo o un interesse legittimo sussista la possibilità di agire del singolo o di una associazione che rappresenti interessi diffusi.

Al solo scopo di completare lo scenario – ma anche di evidente provocazione – si evidenziano di seguito tutte le possibili mosse che si potrebbero attivare per risolvere lo stallo, precisando che le indicazioni sono quasi “scolastiche” e necessitano ovviamente di valutazioni strategiche e di accurati approfondimenti giuridici:
• ricorso ex art. 28 dello Statuto dei lavoratori per comportamento antisindacale. La incertezza sui termini finanziari per la contrattazione impedisce di fatto ogni negoziazione per cui potrebbe rilevarsi una condotta illecita. Resta da vedere contro chi sia possibile fare ricorso: in via teorica la controparte sarebbe l’Aran ma in realtà il vero “datore di lavoro” di cui parla lo Statuto è la regione per cui il ricorso dovrebbe essere indirizzato al Presidente del Comitato di Settore;
• azione civile contro il Presidente del Comitato di settore per arricchimento senza causa da parte delle regioni ai sensi dell’art. 2041 del cc. ;
• denuncia penale sempre contro il Presidente del Comitato di settore per abuso d’ufficio ai sensi dell’art. 323 del cp. Può sembrare una mossa esagerata ma le condizioni previste dal codice per la realizzazione del reato ci sono tutte: è un pubblico ufficiale, è nello svolgimento di una funzione prevista espressamente dalla legge, ha violato una norma di legge (vedi la chiara affermazione della Rgs), lo ha fatto intenzionalmente, ha arrecato ad altri un danno ingiusto;
• segnalazione alle sezioni regionali della Corte dei conti a carico di tutte le regioni e aziende che non hanno fatto regolarmente gli accantonamenti in bilancio, violando i principi contabili obbligatori;
• diffida ad adempiere e messa in mora ai sensi dell’art. 1454 del cc sia al Presidente del Comitato di settore che all’Aran fissando un termine non inferiore a 15 giorni per l’adozione formale e corretta dell’atto di indirizzo e minacciando in caso contrario il risarcimento del danno e gli interessi legali.
È semplicemente assurdo pensare che si debba ricorrere ad uno degli strumenti di cui sopra; ma è altrettanto assurdo che i dirigenti del servizio sanitario finiscano per risultare nell’intera platea di 3,2 milioni di dipendenti pubblici gli unici a non avere avuto il rinnovo contrattuale pari al 3,48% del monte salari.

Non ci sono più aggettivi per definire ciò che sta accadendo per il rinnovo dei contratti collettivi delle due aree dirigenziali del Ssn. La vigenza contrattuale è addirittura scaduta da più di tre mesi, dal 1° aprile scorso è scattata una ulteriore indennità di vacanza contrattuale, sono passati ben 44 mesi dalla sentenza della Corte costituzionale che ha riaperto le tornate contrattuali e siamo ancora molto lontani dalla sottoscrizione del contratto. Tale situazione ha demolito tutti i primati negativi da quando esiste la contrattazione collettiva: il più lungo periodo di mancanza di rinnovo, superamento della data di scadenza del contratto, percezione contemporanea di due Ivc, l’insolito ruolo della parte “buona” assunto dal ministero dell’Economia. Intendiamoci, quello che è scandaloso non è il mero ritardo perché non esiste alcun obbligo giuridico di “concludere” un contratto visto che la firma tra le parti avviene quando sussiste la reciproca convenienza, ma è inconcepibile il quadro complessivo della negoziazione dove non si sa realmente quali siano le controparti – certamente non l’Aran e le organizzazioni sindacali -, dove sono incerte le risorse finanziarie, dove viene attuato un gioco delle parti fatto di ambiguità e posizioni indifendibili, dove infine sembra che ci sia, a volte, una logica perversa che vuole tutti contro tutti. Come altrimenti spiegare le posizioni assunte dalla ministra della Salute e dalla sua collega della Funzione pubblica e quella delle Regioni ? Tutti proclamano di volere una rapida conclusione delle trattative ma quando si devono sciogliere i nodi sembra di abitare in un mondo irreale, assurdamente complicato tanto da far impallidire le vicende della Brexit. È facile fare proclami di circostanza e promesse quando i soldi devono metterli gli altri e questi altri sono le Regioni in quanto, come è noto, gli oneri contrattuali sono posti a carico dei rispettivi bilanci ai sensi dell'art. 48, comma 2, del d.lgs. 165/2001. Tutto ciò con l’ombra lunga del Mef che incide profondamente – e non sempre in modo negativo, come vedremo - sulle decisioni finali. L’ultimo episodio avvenuto è particolarmente sintomatico di questo stato di cose.
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